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martedì 29 marzo 2016

Buddha e Heidegger. La vacuità e la differenza.



Mahaprajnaparamita hridaya sutra:
«Così ho sentito: una volta il Bhagavat (il Buddha) risiedeva a Rajagriha, sul picco dell’Avvoltoio, insieme con un gran numero di monaci e un gran numero di Bodhisattva.
In quel periodo il Bhagavat era assorbito in una meditazione chiamata Gambhiravasambodha. E contemporaneamente (fin qui da Max Müller, The larger Prajnaparamita; ora  da E. Conze:) il Bodhisattva Avalokiteshvara stava muovendosi nella profondità della “sapienza che è andata al di là”. Egli dall’alto (dal principio) guardò giù e scorse soltanto cinque aggregati (ambiti d’esperienza) e li vide vuoti.
“O Sariputra, qui materia è vacuità e proprio vacuità è materia; la vacuità non differisce dalla materia né la materia differisce dalla vacuità; qualsivoglia cosa sia materia, quella è vacuità, qualsivoglia cosa sia vacuità quella è materia e lo stesso vale per affezione emotiva, concezioni, impulsi vitali e coscienza” ».
ll buddismo insegna che la persona è composizione ed esito dell’interazione di cinque campi d’esperienza (i cinque skandha): uno fisico-materiale (rupa), cioè materia, forma e quanto si vede, tocca, gusta, ecc. e quattro psichici (nama), vale a dire la nostra esperienza interiore: affezioni (vedana), concezioni (samjna), impressioni e impulsi psichici (samskara), e, infine, il campo in cui ciò accade - la coscienza (vijnana). Il dolore (dukkha) origina dalla nescienza (avidya) che permea i cinque campi di esperienza costringendo all’immedesimazione partecipativa con essi e oscurando la verità. L’esperienza liberante dal dolore è quella della vacuità (shunyata) che, secondo la scuola Prajnaparamita, le cui prime redazioni scritte risalgono al I secolo a. C., coincide con una “sapienza che è andata al di là” circa i cinque ambiti d’esperienza. La vacuità è allora, secondo il testo sopra riportato, da ricercarsi negli skandha stessi, in questa stessa vita, e perciò dapprincipio anche nell’esperienza materiale: l’esperienza materiale è vacuità; la vacuità è anche nell’affezione emotiva (il “mi piace – non mi piace”) e, che questo ci piaccia o meno, anche il piacere o dispiacere sono vacuità; le concezioni sono vacuità e se si cerca la vacuità anche l’idea di vacuità è vacuità. Lo stesso è per le impressioni e gli impulsi vitali; se si cerca la vacuità essa è le volizioni, le tendenze, gli sforzi, le intenzioni: il cercare stesso è vacuità!
Infine la coscienza è vacuità, e se si cerca la vacuità, eccola! è la stessa coscienza nel cui ambito avviene il cercare…

Questo Sutra (sermone, ma, letteralmente, “filo conduttore”), il Mahaprajnaparamita hridaya, è uno dei più sacri e recitati nel buddismo mahayana, quello professato dal Dalai Lama e dallo zen, tanto per intenderci. Esso è al contempo uno dei più astrusi alla comprensione dell’occidentale, ma anche tra i più citati ecommentati, perché l’ambiguità del termine shunyata stimola molte interpretazioni talvolta fantasiose.
Cosa significa dunque che l’intera esperienza che l’uomo può avere - la materia e i suoi dati, le affezioni emotive, le concezioni, gli impulsi vitali, la coscienza - è vacuità?
Non è certo al vuoto spaziale che Avalokiteshavara, personificazione mitica di un principio di illuminazione e compassione, si riferiva…
Vorrei qui proporre un parallelo con una chiarificazione fondamentale introdotta dal filosofo tedesco Martin Heidegger: quella della Differenza ontologica. Egli, nell’ambito della questione dell’essere, chiarisce che essere non è qualcosa, ma l’essere delle cose (degli essenti, diceva lui). Ad esempio, essere non va inteso come la totalità delle cose che costituiscono il mondo, ma il fatto d’essere della totalità delle cose che costituiscono il mondo. È quindi improprio esprimersi con “l’essere” per intendere “ciò che è” o “un essere” per esprimere qualche aspetto particolare di ciò che è. Heidegger usa all’uopo essente o ente (das Saiende), cioè “in atto d’essere” in senso verbale-participiale, ma l’essere (Sein) non è un essente, è “differente” rispetto ad ogni essente, anche se mai si può dare essere senza essente. È un punto cruciale della chiarificazione ontologica heideggeriana che tuttora resta poco compreso nelle sue implicazioni.
La Differenza ci permette di avvicinarci alla “comprensione” della vacuità o del vuoto buddista (la “vacuità” è tradotta spesso anche con “vuoto”). Intendere vacuità (o vuoto) come qualcosa è altrettanto erroneo che considerare “l’essere” come qualcosa. Il vuoto, del pari, non è qualcosa, ma il fatto d’essere “privo d’essenza” (intendendo con “essenza” la qualità ultima di qualcosa – ciò che rende qualcosa proprio quella cosa lì) propria (svabhavashunya) di tutto quel che esperiamo. Se la vacuità fosse qualcosa - sostanza, qualità, atto - essa non potrebbe essere quello che dovrebbe: infatti per essere la “cosa-vacuità” - cioè una cosa priva di qualità intrinseca - dovrebbe essere priva della qualità di vacuità; dovendo, però, contraddittoriamente, essere la “vacuità” proprio la qualità necessaria a qualificarlo, appunto, come “vacuità”! Ricordo che questa argomentazione è contro l’intendere la vacuità come qualcosa di essente caratterizzata da una qualità (essenza).
Siamo in una situazione gödeliana: “esser vuoto” significa il non poter essere qualcosa di “essente con un’essenza” da parte dell’“essere vuoto”!
Perciò sostenere che il vuoto è qualcosa in sé è autocontraddittorio, in quanto vuoto significa “senza essenza propria”, e essere senza essenza propria non può essere un’essenza propria né tantomeno una sostanza con essenza propria. Il vuoto d’altra parte è riferito ai campi d’esperienza e perciò non stiamo parlando di un puro niente.

Il Sutra procede:

«”Pertanto, o Sariputra, dal punto di vista della vacuità non c’è materia, né sensazione, né concezione, né impulso vitale, né coscienza… non forme, suoni, odori, gusti… non c’è conoscenza, né ignoranza”…».

Ma indubbiamente qualcosa, nel senso più generale, sta accadendo: non è forse vero che noi percepiamo colori, sapori, che abbiamo emozioni, sentimenti, che ora stiamo leggendo ed avendo una qualificatissima esperienza intellettuale? Come si può sostenere che tutto ciò non abbia essenza propria? E il dolore e la felicità? Non sono caratterizzati da essenze proprie, dall’essere proprio dolore,  proprio felicità?

Avalokiteshvara dice «O Shariputra, dal punto di vista della vacuità…»: intende “da un’esperienza di vacuità”, cioè di verità assoluta ed ultima, come direbbe il grande argomentatore della vacuità, l’indiano Nagarjuna (II-III sec. d.C.). Qualcosa sta senza alcun dubbio accadendo – e l’esperienza, così come viene vissutaordinariamente Nagarjuna la chiama “verità relativa” –, ma se si prova ad avvicinarsi molto dappresso (vedremo come) a ciò che accade, quel qualcosa perde qualità intrinseca. E come può un essente essere qualcosa se non può essere “qualcosa”? Ma allora stiamo parlando di niente?!
Tornando a Heidegger, egli sostenne che l’Occidente non era riuscito a pensare convenientemente l’essere perché lo aveva concepito come qualcosa, come ente. Se intendessimo l’essere come qualcosa allora sarebbero identici la cosa e il fatto d’essere della cosa, sostantivo e verbo. Di più ancora: non si può neppure sostenere che essere sia un verbo, in quanto anche un verbo è qualcosa e si trova esso stesso ad essere!
E proprio qui si colloca la differenza tra il fatto d’essere delle cose essenti e tutte le cose essenti. Il fatto d’essere, in sé, non esiste, perché è sempre relativo a qualche essente: si dà il fatto d’essere dei singoli essenti. Essere è, quindi, differente rispetto ad ogni cosa essente, non si può ridurre né costringere in nessuna delle cose essenti, cosicché Heidegger conclude che «il puro essere e il puro niente è dunque lo stesso», che quel che ci accade quando realizziamo che gli essenti sono (che le cose sono) è esser colti dal Niente che li mostra all’essere - qui è il famoso “Nulla che nulleggia” di Che cos’è metafisica? criticato aspramente da Rudolph Carnap e da filosofi del linguaggio - (senza che con questo il mondo cessi d’essere!).
«Il chiaro coraggio dell’angoscia essenziale garantisce la misteriosa possibilità dell’esperienza dell’essere» dice Heidegger, e sono pensieri eccezionalmente profondi che trovano comunanza e, per certi sviluppi, identità, coll’atteggiamento del meditante e col vuoto del Buddha. (Qui si potrebbe ravvisare una contraddizione: se c’è identità tra i pensieri di Buddha ed Heidegger allora è un’identità di essenze... Giustissimo secondo l’esperienza “relativa”! Quel che manca è l’esperienza illuminante della vacuità, la quale sola può chiarire se stessa). Shunyata, il vuoto relativo ad ogni aspetto dell’esperienzialità umana (i cinque ambiti di esperienzialità o skandha) non è qualcosa, ma il fatto d’essere vuote d’essenza di tutte le cose, materiali, mentali e coscienziali, e il fatto d’essere vuote d’essenza non può essere un’essenza. Il vuoto è differente rispetto ad ogni essenza.
Che significa allora esser “vuote d’essenza”? Significa che il mondo come appare è illusorio e che è possibile risvegliarsi ad una “dimensione” più vera, quella della vacuità, appunto.

Ancora il Sutra:

«… un uomo che s’inoltra nella Prajnaparamita dei bodhisattva, dimora (per qualche tempo) nell’involucro della coscienza. Ma quando anche l’involucro della coscienza torna vacuità, allora egli diviene libero da ogni paura… godendo del Nirvana finale».

La vacuità e il Nirvana non sono, però, dimensioni divine, ché se anche Dio c’è, è in ultima analisi esso stesso vuoto, e qui si colloca la differenza più profonda tra i teismi come la spiritualità cristiana ed il buddismo.
Se l’occidentale osasse guardare fino in fondo la propria condizione, come Heidegger e il Buddha hanno osato, troverebbe che, alla luce del nulla su cui si staglia l’esistenza e di cui tutte le cose essenti sono intrise (il Nulla che nulleggia), ed essendo irrimediabilmente incolmabile il divario tra nulla ed essere, consapevolezza che venne espressa da Heidegger col «perché dunque l’essere piuttosto che nulla? », non ha scampo: il nichilismo è ad un bivio tra la banalità del nientismo, in cui il senso della vita coincide con la caccia alle sensazioni, foriero di illusione, delusione e malessere, e la liberante “sapienza che è andata al di là” (Prajnaparamita).
La vacuità inizia dal vedere il puro non-nulla del mondo e dei suoi elementi; non nulla (il fatto d’essere) evidenziato dal poter cogliere il nulla (l’alternativa negata rispetto al fatto d’essere) nell’essere stesso; “nulla” che, appunto, rende evidente l’essere degli essenti. Heidegger parla del “nientificare del niente”, che “non è annientamento dell’essente”, ma piuttosto evento che lo rivela.
L’essere intriso di niente fa di ogni essente una singolarità non qualificabile in TERMINI ASSOLUTI; singolarità a cagione dell’incolmabile divario tra nulla e non-nulla (divario tra un più lecito “niente del tutto”, un’assenza del mondo, e il mondo incredibilmente essente. Heidegger realizzando tale incolmabile divario s’espresse senza mezzi termini: «questo mostruosamente spaesante (ungeheuerlich): che l’essente è e non piuttosto non è»; e  altrove: «meraviglia di tutte le meraviglie: che l’essente è». Singolarità perché a questo punto l’incolmabile divario non permette qualificazioni se non all’interno dell’essente, cioé qualificazioni relative, interdipendenti, ma impossibili a fondarsi in un Assoluto, in quanto ogni possibile Assoluto sarebbe a sua volta essente e perciò infondato. Non possono darsi qualificazioni o essenze ultime: ciò che sta accadendo (invece del nulla) è vuoto perché non ha né può avere fondamento, origini, cause, finalità assoluti e neppure senso ultimo, in quanto tutti questi sarebbero a loro volta, in ultimo, altrettanto infondati, derivati da niente, singolari.
Il nulla - e l’incolmabile divario tra quel che si dà e il nulla - svuota il mondo da ogni possibile fondazione delle essenze in Assoluti. L’essere precede ogni Dio-fondamento. L’essere non necessita filosoficamente del Dio-fondamento. L’irrimediabile infondatezza dell’essere-invece-che-nulla rende vuote le essenze, dando ad esse solo statuto relativo, o come direbbe Nagarjuna, solo “in dipendenza di cause e condizioni”. L’atteggiamento nichilista è altrettanto illusorio (ma più autodistruttivo) di quello di chi investe la vita di un valore ultimo, materiale o spirituale (forse più portato all’intolleranza e alle violenze in tal senso); Buddha ha insegnato che anche la disperazione, come tutto il resto, è vuota, ed in ciò si intende il senso della Via di mezzo.
«Ma allora anche la tua affermazione è vuota!», potrebbe obiettare un lettore attento.
Magari tu avessi capito questo fino in fondo, amico mio…, poiché saresti nel Nirvana finale, là dove si realizza che queste contraddizioni sono già da sempre risolte, anzi che non sono mai esistite, ma Nagarjuna avverte: la vacuità male intesa porta l’uomo alla rovina, come un serpente male afferrato!

L’uomo, in genere, cerca la felicità, mentre il buddista vede che anche la sensazione di felicità, come quella di dolore, è vuota. 

«... “Non c’è sofferenza... non c’è conoscenza alcuna...
Pertanto, o Sariputra, è grazie alla sua indifferenza di fronte ad ogni tipo di realizzazione personale che un Bodhisattva, avendo fatto assegnamento sulla perfezione di sapienza, sta senza pensieri ostruenti... Nulla può farlo tremare... ha debellato ciò che può turbare e alla fine egli arriva al Nirvana”».

Questo è il messaggio del Buddha. Dovremmo chiederci come mai per duemilacinquecento anni moltitudini hanno trovato sollievo in questa astrusa Via senza Dei e perché alcune tra le menti migliori dell’Oriente (e dell’Occidente) ne siano rimaste affascinate e conquistate. Che ci sia qualcosa di vero? E come vi si perviene? Il Buddha insegnò l’Ottuplice sentiero, ma due parole esprimono l’essenza della Via che il Buddha stesso praticò: meditazione e illuminazione, in italiano; Dhyana eBodhi in sanscrito; Zazen e Satori in giapponese…
Ma, insegnando meditazione da oltre vent’anni e avendo iniziato ad essa centinaia di allievi, ancora mi chiedo cosa s’accenda nella mente degli occidentali quando leggono queste due parole che in Oriente corrispondono ad esperienze precise di cui, però, l’occidentale non ha nozione alcuna.

L’esperienza del Nulla è ben resa dai seguenti versi di Hakuin, eccelso maestro zen (1686-1769):

Un fuoco nero che brucia con l’oscura
brillantezza di una gemma
prosciuga il vasto cielo e la terra di tutto il
loro naturale colore.
Nello specchio della mente non si vedono
né montagne né fiumi;
Cento milioni di mondi agonizzanti, tutto
per niente.

Il magico confine tra i due aspetti della realtà, quello relativo e quello assoluto, sono espressi in questa poesia zen:

Fin dal principio
tutte le cose (i dharma) sono in sé silenziose e vuote,
ma quando viene la primavera e centinaia di fiori sbocciano
il rigògolo giallo canta sul salice…

di Franco Bertossa, Buddha e Heidegger. La Vacuità e la Differenza, in «A.S.I.A. Antiche e moderne vie all’Illuminazione», n. 19/2002, pag. 1.